“Come sei entrato in punta di piedi nel nostro mondo, quasi in silenzio, solo un attimo sei rimasto. Ma che impronta hanno lasciato i tuoi passi nei nostri cuori”.
Dorothy Ferguson
L’aborto terapeutico (ITG) rientra nella categoria delle interruzioni volontarie della gravidanza; ciò che lo distingue dall’ IVG è la presenza di problematiche sanitarie proprie della madre, per la quale la gravidanza o il parto rappresentano un pericolo grave per la sua sopravvivenza, oppure del feto, quando cioè sono riscontrate “previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” (art. 4).
Queste due situazioni permettono di interrompere la gravidanza anche dopo i 90 giorni, limite previsto per le interruzioni di gravidanza motivate da motivi economici, sociali, relazionali, ecc. L’art. 6 infatti prevede che “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.”
Come per le IVG, le reazioni della donna possono essere diverse: in alcune di esse, l’ITG non desta particolari problematiche psicologiche, in altre si presentano sintomi più o meno gravi, che possono costituire entità nosologiche come la sindrome post-aborto, la depressione, la psicosi post-aborto, ecc. Queste reazioni sono talora riscontrabili quando la scelta è conseguente a una diagnosi di patologia nel figlio e quando l’aborto è effettuato dopo i tre mesi, per cui si configura come un vero e proprio parto indotto, fonte per alcune donne di ulteriore sofferenza. Il timore, inoltre, è talvolta relativo all’effettiva presenza della malattia nel figlio, per cui una delle prime cose che fanno le madri può essere controllare se il figlio è davvero malformato. A ciò si aggiunge anche la sofferenza correlata alla scelta se organizzare il funerale oppure no. Nella donna e nel suo partner possono così assommarsi due lutti: quello del bimbo desiderato e non concepito e quello del bimbo abortito. Abortire dunque un figlio malato non garantisce in realtà che nella donna non emergano comunque problematiche di tipo psicologico e/o psichiatrico.
Questa serie di esperienze dolorose possono necessitare di un percorso terapeutico per essere elaborate, affinché la donna e/o il partner possano aprirsi alla speranza di una vita rinnovata.